sabato 25 aprile 2015

Sette rami di quercia.



«Mi hanno detto sempre così, nelle commemorazioni: tu sei una quercia che ha cresciuto sette rami, e quelli sono stati falciati, e la quercia non è morta. Va bene, la figura è bella e qualche volta piango, nelle commemorazioni. Ma guardate il seme. Perché la quercia morirà, e non sarà buona nemmeno per il fuoco. Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme. Il nostro seme è l'ideale nella testa dell'uomo». 


        Alcide Cervi





domenica 12 aprile 2015

Solo un pezzo di cioccolato.

Ho passato un bellissimo fine settimana con la mia famiglia, con mia moglie e mia figlia. 

Come spesso mi accade non riesco mai a togliermi dalla testa certi pensieri.

Alcuni iniziano qui…

“Non rammentava la data precisa, ma doveva essere accaduto più o meno quando aveva dieci, forse dodici anni. Suo padre era scomparso da qualche tempo, non riusciva a ricordare quanto. Ricordava meglio i disagi e i rumori di quel periodo: il panico periodico causato dalle incursioni aeree, le corse verso le stazioni della metropolitana utilizzate come rifugi, i mucchi di pietrisco sparsi ovunque, i manifesti con ingiunzioni incomprensibili attaccati a ogni angolo di strada, i gruppi di giovani con le camicie tutte dello stesso colore, le file interminabili davanti alle panetterie, le scariche di mitragliatrice che di tanto in tanto si sentivano in lontananza. Soprattutto, il fatto che non ci fosse mai cibo a sufficienza. Ricordava lunghi pomeriggi passati a rovistare fra i mucchi di rifiuti e i bidoni della spazzatura per tirarne fuori torsi di cavolo, bucce di patate, talvolta perfino pezzi ammuffiti di pane tostato dai quali venivano grattate via con la massima cura le parti bruciacchiate, oppure trascorsi ad attendere il passaggio di camion che facevano sempre la stessa strada per trasportare foraggio e che talvolta, sobbalzando sulle buche di cui era piena la strada, lasciavano cadere un po' di grani da qualche panello di semi oleosi. Quando suo padre scomparve, sua madre non mostrò stupore alcuno, né segni di intenso dolore, ma in lei si verificò un improvviso cambiamento. Sembrava che niente la interessasse più. Agli occhi di Winston era chiaro che la madre era in attesa di qualcosa che le sembrava inevitabile. Faceva tutto quel che era necessario, cucinava, lavava, rammendava, spazzava il pavimento, toglieva la polvere dalla mensola del caminetto, ma tutto lentamente e con una curiosa assenza di movimenti superflui, come un burattino che per la bravura dell'artista sembra muoversi da solo. Il suo corpo, ampio e ben modellato, sembrava precipitare verso l'immobilità. Se ne stava seduta per ore sul letto, quasi inerte, accudendo la sorellina di Winston, una creaturina malaticcia e silenziosa, con una faccia che la magrezza rendeva simile a quella di una scimmia. Ogni tanto, ma molto di rado, abbracciava Winston, stringendoselo al petto per lungo tempo, senza dire una parola ed egli, malgrado la sua giovane età e il suo egoismo, sapeva che questo gesto era in qualche modo collegato all'evento innominato che stava per verificarsi. Ricordava la stanza dove vivevano, un ambiente buio che puzzava di chiuso, occupato per una buona metà da un letto su cui era stesa una sovraccoperta bianca. C'era un fornello a gas dietro il parafuoco e una mensola su cui veniva tenuto il cibo, mentre fuori, sul pianerottolo, c'era un lavandino di terracotta scura, comune ad altre stanze come la loro. Ricordava il corpo statuario della madre mentre si chinava sul fornello per rimestare qualcosa nella pentola, ma più di tutto ricordava la fame che non gli dava requie e le battaglie feroci e sordide che si scatenavano all'ora dei pasti. Chiedeva mille volte alla madre, con un tono petulante, perché non c'era dell'altro cibo, gridava e inveiva contro di lei (ricordava perfino il tono della propria voce, che stava cambiando prematuramente e che all'improvviso prendeva delle strane note basse), oppure piagnucolava, nel tentativo di commuoverla e ottenere più di quello che gli spettava. La madre, dal canto suo, era pronta ad accontentarlo, convinta com'era che a lui, "il maschio", toccasse di diritto la porzione più grande. Ma Winston non era mai soddisfatto. Ogni volta lei lo supplicava di non essere egoista, di ricordare che la sorellina era malata e aveva bisogno di cibo, ma era tutto inutile. Winston urlava come un ossesso quando la madre finiva di scodellargli nel piatto la sua porzione, cercava di strapparle di mano la pentola e il cucchiaio, attingeva anche al piatto della sorellina. Sapeva che così facendo le riduceva entrambe alla fame, ma non riusciva a controllarsi, pensava addirittura che quanto faceva fosse nel suo diritto. Secondo lui, la fame che gli torceva le budella bastava a giustificarlo. Nell'intervallo fra i pasti, se la madre non avesse vigilato, non avrebbe mancato di sottrarre qualcosa alla miserabile scorta di cibo sulla mensola.Un giorno venne distribuita una razione di cioccolato, un evento che non si verificava da settimane, per non dire da mesi. Ricordava ancora con perfetta chiarezza il gusto di quel prezioso pezzetto di cioccolato. Era una tavoletta da due once (a quel tempo si parlava ancora di once), da dividere in tre. Ovviamente, la si sarebbe dovuta dividere in tre parti uguali. All'improvviso, come se a parlare fosse stato un altro, Winston udì se stesso reclamare, a voce alta e profonda, tutto il cioccolato. La madre gli disse di non essere così avido. Ne seguì una discussione lunga e lamentosa, che si prolungò fra grida, piagnucolii, lacrime, rimostranze, contrattazioni. La sorellina, seduta in grembo alla madre con entrambe le braccia attorno al suo collo, proprio come una scimmietta, lo guardava con due occhioni dolenti. Infine la mamma spezzò la tavoletta di cioccolato, dandone tre quarti a Winston e un quarto alla bambina, che prese la sua porzione e restò a guardarla senza mostrare un particolare interesse, forse perché non sapeva neanche di che cosa si trattasse. Winston la guardò per un momento, poi, con uno scatto repentino strappò il pezzo di cioccolato dalle mani della sorella e scappò via. «Winston, Winston!» gli gridò dietro la madre. «Torna indietro! Restituisci il cioccolato a tua sorella!»Winston si fermò, ma non tornò indietro. La madre lo guardava fisso in faccia, con gli occhi pieni d'angoscia. Perfino adesso che stava ricostruendo quell'episodio, gli attraversava la mente il pensiero che stava per accadere qualcosa, anche se non sapeva cosa. La sorella intanto, consapevole di aver subito un furto, aveva cominciato a lamentarsi debolmente. La madre l'abbracciò, stringendole il capo contro il petto. Qualcosa, in quel gesto, gli disse che la bambina stava morendo. Si voltò e corse giù per le scale, mentre il pezzo di cioccolato che stringeva fra le dita cominciava a farsi appiccicoso.  
Non rivide più sua madre. Dopo aver divorato il cioccolato, cominciò ad avvertire un senso di vergogna e vagò ore e ore per le strade, finché la fame non lo risospinse verso casa. Quando tornò, la madre era scomparsa.

…e poi finiscono qui


Sul sito www.ilpiugrandesuccessodelleuro.it è ora disponibile la versione integrale del documentario.





Non riesco mai a togliermi dalla testa l’immagine di quella madre…

sabato 4 aprile 2015

... tutta la mia ipocrisia

L’altro giorno stavo parlando con alcuni colleghi: si discuteva di globalizzazione. 
Io facevo la parte del radical chic (il no-global col culo degli altri), e loro facevano quelli un po’ più razionali e meno chic. Io ovviamente giù a testa bassa contro le criticità di un sistema che, a mio modo, genera solo squilibri; loro, invece, mi facevano notare anche qualche aspetto positivo.

Tipo?”, chiedevo io.

Banane, kiwi, ananas, arance, avocado, etc.. Eh sì, perché prima della famosea globalizzazione questa roba qua era considerata un vero e proprio lusso nel Regno delle Tre Corone (e non solo). La frutta in generale e quella esotica in particolare la si vedeva solo nei paesi di origine e tutto aveva il gusto della vacanza e della straordinarietà. Oggi, invece, in quasi tutti i supermercati svedesi, come quelli italiani, francesi, inglesi e… globali (ecco infatti si chiama globalizzazione così che uno non debba far sempre tutta la lista), si trova ovunque tutta la frutta che si vuole e quando si vuole. Poco importa se io qui compro i kiwi del Ferrarese e alla Coop Estense ci sono quelli neozelandesi. E cosa vuoi che sia se ieri alla Willis ho preso due retine di Tarocco siciliane, mentre magari in meridione si mangiano quelle marocchine?! Non stiamo sempre a far la punta al capello.
Per i miei colleghi la globalizzazione è un gran bene, perché con la generazione dei loro padri hanno finalmente finito di mangiare sempre e solo patate (ho riportato le parole testuali). Io, che sono un dito al culo un po' puntiglioso a volte, gli ho anche fatto notare che negli ultimi vent'anni oltre alla banane del Sud America, hanno anche iniziato a bere un sacco di latte tedesco o a mangiare un botto di carne danese, per cui tanti e tanti allevatori sono finiti col culo per terra in braghe di tela, ma così è la vita: il magico mondo della concorrenza globale.

Ad ogni modo, tutta sta manfrina per spiegarvi cosa ho pensato oggi quando stavo riordinando la borsa della spesa e mi è venuta fuori questa foto:



L’ho intitolata … tutta la mia ipocrisia.

Ecco, per chi non l’avesse capito, svelato l’arcano del perché la classica Italian Family Breakfast (ho scritto in inglese perché in italiano non suonava bene: colazione italiana in famiglia, colazione famigliare italiana, colazione famigliare all'italiana… va beh s’è capito) è il simbolo del mio essere no-global col culo degli altri. Se non è ipocrisia questa?!?!

Perché quando poi tocca a me fare il puritano, le patate non le mangio!!! 

O meglio quando tocca a me, mi faccio il caffè della Lavazza e con la Bea ci mangiamo i Pan di Stelle, che ogni volta che li metto in tavola al mattino mi si scalda il cuore.
Probabilmente se non ci fosse la globalizzazione la mia bella colazione all'italiana me la sognerei e non riuscirei a trasmettere a mia figlia i profumi e i sapori che sono stati i miei quando ero bambino (e anche un po' meno bambino).

Quindi? Quindi non lo so! Io la quadra non l’ho ancora trovata, ma mi capita spesso di pensarci.




Poi, poi c’è la cosa più importante che mi è venuta in mente oggi. Mi è passata per la testa, sempre guardando la foto sopra.
Quando l’ho vista lì immortalata mi è scesa una lacrimuccia di felicità nel pensare alla mia moca (o moka?!?). L’abbiamo presa quando ci siamo sposati e ogni giorno ci ha sempre regalato grandi soddisfazioni. Qualche volta sono stato molto maldestro, specialmente quando l’ho lasciata sul fornello per una mezz'ora buona, dopo che mi ero scordato di versagli dentro l’acqua (ed è capitato più di una volta). Poi anche lei si è dovuta adattare a tutta un’altra vita: acqua diversa, tipi di caffè diversi, fornelli ad induzione invece che la calda fiamma del gas… sì insomma anche per lei non è stato sempre facile, ma è sempre lì che non perde una goccia e che tutte le mattine ci riempie la cucina di profumo e gioia, un po’ come Lei: la mia Signora.


Eh sì (come sola la Bea sa dire), sì la mia Signora è un po’ come la moca anche se gli ordini di grandezza non sono paragonabili. Lei ci riempie le giornate col suo profumo e la sua gioia e, anche se ogni tanto non le dedico le attenzioni che dovrebbe (un po’ come quando mi scordo l’acqua), Lei diventa tutta rossa e incandescente ma poi si raffredda e continua sempre a dare quel gusto speciale alla nostra vita.



Auguri (global) di buona Pasqua.