Circa un mese fa (il 24 Marzo per
l'esattezza), mi sono imbattuto in questo.
Nonostante
tanti anni sui banchi di scuola non sono mai riuscito ad andare oltre a quello che i
programmi ministeriali volevano che io sapessi. E così capita di scoprire, ora, che
le cose più importanti sono spesso quelle non studiate...oggi penso sia un buon
giorno per fare un ripasso.
(qui riporto il testo tratto da Wikipedia).
Occupazione tedesca di Roma
Sottoposta pro
forma alla sovranità della RSI, mantenendo lo status di
"città aperta", Roma era in realtà governata di fatto solo dai
comandi germanici, e lo divenne anche formalmente dopo lo sbarco di
Anzio, il 22 gennaio 1944, quando l'intera provincia romana venne
dichiarata "zona di operazioni". Il feldmaresciallo Albert
Kesselring, comandante tedesco del fronte meridionale, nominò capo
della Gestapo di
Roma, conferendogli direttamente il controllo dell'ordine pubblico in città,
l'ufficiale delle SS Herbert
Kappler, già resosi protagonista della razzia del ghetto ebraico
e della successiva deportazione, il 16 ottobre 1943, di 1.023 ebrei
romani verso i Campi di sterminio.
La campagna
del terrore avviata da Kappler, con frequenti rastrellamenti ed arresti di
antifascisti e semplici sospetti nelle varie carceri romane (fra cui il più
tristemente famoso fu quello di via Tasso), sgominò nell'inverno 1943-44
quasi ogni gruppo della Resistenza romana, che si ritrovò a perdere prima gli
elementi militari, quindi quelli trotzkisti di "Bandiera Rossa". Anche gli aderenti a
"Giustizia e Libertà" e al Partito Socialista e i sindacalisti
socialisti (come Bruno Buozzi) subirono forti decimazioni negli
arresti compiuti dalle varie polizie tedesche, da quella italiana e dalle bande
italiane sotto controllo tedesco (come la Banda Koch).
Solo i GAP comunisti riuscivano a mantenere una buona efficienza operativa.
Il fatto che
Roma venisse a trovarsi nelle immediate retrovie del fronte ingenerò la
convinzione che la città fosse pienamente teatro di guerra. È in questo
contesto che i quadri comunisti della Resistenza romana giunsero alla
determinazione di reagire con le armi e di attaccare militarmente l'occupante
con un'azione che avesse un forte valore simbolico: venne infatti scelto come
data il 23 marzo, anniversario della fondazione dei fasci di combattimento.
L'attentato in via Rasella
Tale reparto
fu segnalato come bersaglio da Giorgio
Amendola, poiché lo vedeva "passare ogni pomeriggio"
"in pieno assetto di guerra", lasciando poi al comando partigiano
"assoluta libertà d'iniziativa", non per eventuali responsabilità dei
soldati che vi appartenevano. Il "Bozen" era costituito da soldati
addestrati e venne descritto dallo stesso Amendola, come un
"battaglione di gendarmeria" che transitava in Via Rasella "in
pieno assetto da guerra".
L'operazione
fu portata a termine da 12 partigiani. Fu utilizzata una bomba a miccia ad
alto potenziale; collocata in un carrettino per la spazzatura urbana,
confezionata con 18 kg di esplosivo misto a spezzoni di ferro e dopo
l'esplosione furono lanciate alcune bombe a mano. Vennero uccisi 32 militari
dell'11a Compagnia del III Battaglione del
Polizeiregiment Bozen e un altro soldato morì il giorno successivo
(altri nove sarebbero deceduti in seguito). L'esplosione uccise anche due
civili italiani, Antonio Chiaretti,
partigiano della formazione Bandiera Rossa, ed il tredicenne Piero
Zuccheretti.
La rappresaglia
Processo
decisionale tedesco
Il
generale Kurt Mälzer comandante
militare della città di Roma
La prima
alta autorità ad arrivare in via Rasella dopo l'attentato fu il questore Pietro Caruso,
subito dopo giunse il generale Kurt Mälzercomandante
della piazza di Roma, che apparve sconvolto dall'evento, diede in escandescenze
e proclamò subito la volontà di procedere alla "vendetta per i miei
poveri kameraden". Il generale parlò di distruggere tutto il
quartiere e di eliminare gli abitanti; il consigliere d'ambasciata Möllhausen e
il colonnello Kappler arrivarono poco dopo e cercarono di calmare il generale
Mälzer; il colonnello assicurò che avrebbe svolto un'inchiesta immediata per
appurare modalità e responsabili dell'attacco. Il colonnello Eugen
Dollmann, presente sul posto, ha affermato che subito si parlò di
rappresaglia. Il generale Mälzer avvertì anche immediatamente il comando
supremo tedesco in Italia ma non riuscì a parlare con il feldmaresciallo
Kesselring che si era recato nella testa di ponte di Anzio; fu quindi il capo
ufficio operazioni, colonnello Dietrich Beelitz, che telefonò al quartier
generale di Rastenburg; Adolf Hitler venne
avvertito nel primo pomeriggio, egli dispose una rappresaglia immediata
"che avrebbe fatto tremare il mondo". Hitler avrebbe parlato di
uccidere da trenta a cinquanta italiani per ogni soldato tedesco morto in via
Rasella; peraltro non esistono documenti che provino l'esistenza di un ordine
diretto di Hitler con la precisa determinazione dell'entità della rappresaglia.
In realtà,
la decisione di compiere la rappresaglia fu presa durante una conversazione
telefonica tra il generale Mälzer, il colonnello Kappler e il generale Eberhard von Mackensen (comandante
dalla 14a Armata, che era il superiore diretto del generale Mälzer poiché
responsabile della zona di guerra della testa di ponte di Anzio). Il generale
von Mackensen che era a conoscenza delle pretese provenienti dal quartier
generale di Rastenburg, ritenne, dopo essersi consultato con il colonnello Kappler,
che fosse sufficiente fucilare dieci italiani per ogni tedesco morto in via
Rasella; inoltre il generale stabilì che le vittime della rappresaglia
avrebbero dovuto essere i cosiddetti Todeskandidaten; i prigionieri
detenuti a Roma già condannati a morte o all'ergastolo e quelli colpevoli di
atti che avrebbero probabilmente portato ad una condanna a morte. La decisione
finale venne presa nella serata dopo il ritorno del feldmaresciallo Kesselring
al suo posto di comando, egli apprese dal suo capo di stato maggiore, generale
Siegfrid Westphal, i dettagli di via Rasella e le varie opzioni di rappresaglia
discusse; quindi entrò in contatto telefonico con il generale Alfred Jodl a
Rastenburg. Il feldmaresciallo affermò che riteneva appropriato "compiere
un'azione intimidatoria" ma che considerava inattuabile una rappresaglia
nelle proporzioni richieste da Hitler; egli propose di applicare la proposta
del generale von Mackensen di uccidere dieci italiani per ogni caduto tedesco
in via Rasella. Il generale Jodl non entrò in dettagli e in pratica lasciò la
decisione finale sull'entità della rappresaglia alle autorità supreme tedesche
in Italia, quindi il feldmaresciallo Kesselring concluse il complesso processo
decisionale tedesco comunicando al generale von Mackensen di procedere alla
rappresaglia dieci contro uno con "esecuzione immediata".
Il
feldmaresciallo Kesselring in persona ha chiarito nella sua testimonianza al
processo nel novembre 1946, che non fu attivata alcuna procedura precedente la
rappresaglia per fare appello alla popolazione o agli attentatori, che non
venne emesso alcun avvertimento pubblico riguardo la rappresaglia e la
proporzione dieci contro uno e che non fu presentata alcuna richiesta ai
partigiani di consegnarsi per evitare l'eccidio. Principale preoccupazione
delle autorita tedesche a Roma fu la necessità di eseguire con la massima
rapidità, entro 24 ore, e nella segretezza la rappresaglia, e la difficoltà di
individuare nel poco tempo a disposizione l'elevato numero di Todeskandidaten richiesto
dalla proporzione stabilita dal feldmaresciallo Kesselring e dal generale von
Mackensen.
Scelta dei
condannati a morte
Il generale
Mälzer, subito dopo il primo colloquio con il generale von Mackensen e ancor
prima della decisione definitiva del feldmaresciallo Kesselring, aveva
incaricato il colonnello Herbert Kappler di individuare la lista dei
prigionieri italiani da eliminare; essendo morti fino a quel momento ventotto
soldati tedeschi a via Rasella, il capo della Gestapo a Roma iniziò a
raccogliere i nomi di 280 Todeskandidaten. Il colonnello Kappler
era consapevole della difficoltà di individuare in brevissimo tempo un numero
così elevato di persone; nelle prigioni di via Tasso e di Regina Coeli egli
disponeva di circa 290 prigionieri tra uomini e donne, ma una parte non
rientravano tra i già condannati a morte o i colpevoli di reati passibili di
condanna a morte; inoltre le donne vennero subito escluse dalla rappresaglia. Il
colonnello Kappler decise di richiedere la collaborazione del questore Caruso
che, dopo un incontro e alcune discussioni, promise di fornire una lista di
cinquanta prigionieri da inserire nelle elenco dei Todeskandidaten.
Il
colonnello Kappler prese in considerazione la possibilità di includere
nell'elenco anche i 57 ebrei imprigionati in attesa di essere deportati; egli
si consultò con il suo superiore diretto, il generale Wilhelm Harster,
comandante in capo della Polizia tedesca in Italia con comando a Verona, che
apparentemente sollecitò il suo subordinato a completare la lista a tutti i
costi includendo anche "tutti gli ebrei di cui avete bisogno". Il
colonnello Kappler ottenne anche l'approvazione al suo operato del giudice
generale del Tribunale militare tedesco a Roma, Hans Keller, che ritenne sulla
base della legge tedesca di autodifesa che la proporzione della rappresaglia
fosse appropriata. Il colonnello quindi attivò i suoi ufficiali, illustrò le
decisioni delle autorità superiori e diede inizio alla frenetica individuazione
dei nomi da inserire nell'elenco; il lavoro degli ufficiali della sezione della
Gestapo di Roma, diretto personalmente dal colonnello Kappler e dal suo
aiutante principale, capitano Erich Priebke,
durò tutta la notte.
Il lavoro
degli uomini del colonnello Kappler divenne ancor più difficile dopo la notizia
arrivata nel corso della notte che il numero dei soldati tedeschi morti in via
Rasella era salito a trentadue; diveniva quindi indispensabile, per mantenere
la proporzione stabilita per la rappresaglia, individuare 320 italiani da
condannare a morte. Dalla ricerca iniziale emerse che i condannati a morte
presenti nelle carceri della Gestapo erano solo tre, membri della Resistenza
comunista e azionista, mentre gli uomini candidabili sulla base di accuse per
reati passibili di condanna a morte risultarono sedici. Il colonnello Kappler
incluse subito anche i 57 ebrei a cui aggiunse i nomi di altri otto
antifascisti di religione ebraica; dopo essersi recato alla caserma del
Viminale, l'ufficiale individuò altri dieci nomi, ritenuti dalle autorità di
polizia italiane, "noti comunisti", compresi tra le persone
rastrellate sommariamente in via Rasella dopo l'attentato. Nella notte la
ricerca di altri Todenskandidaten continuò sempre più
frenetica; il capitano Priebke ha descritto come con il passare delle ore si
procedette ad un nuovo controllo degli elenchi dei detenuti ed all'inserimento
nella lista di uomini arrestati in attesa di giudizio per "oltraggio alle
truppe tedesche", per possesso di "armi da fuoco o esplosivi" o
perché presunti capi di "movimenti clandestini". Il colonnello
Kappler decise a questo punto di comprendere tra i condannati Aldo Finzi, ebreo
con un importante passato di amicizia e collaborazione con Mussolini, e
soprattutto il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo,
l'abile capo del Fronte militare clandestino dell'esercito, e altri 37 militari
italiani, tra cui tre generali e tre ufficiali dei carabinieri compresi due
capitani che avevano arrestato il Duce il 25 luglio 1943. Alle ore 03.00 del
mattino del 24 marzo il colonnello Kappler, dopo aver aggiunto alla lista il
sacerdote accusato di "attività comuniste" don Pietro
Pappagallo, il partigiano Marcello Bucchi e il professore di liceo
accusato di "antifascismo" Paolo Petrucci, ritenne, contando sui 50
nomi promessi dal questore Caruso, di aver raggiunto finalmente il numero di
320 condannati a morte previsti dalla rappresaglia.
Alle ore
08.00 del mattino tuttavia il questore Caruso non aveva ancora pronto il suo
elenco; egli si era recato a conferire con il ministro degli interni del Regime di Salò, Guido Buffarini Guidi, per richiedere
istruzioni e la sua approvazione alla compilazione della lista; il ministro si
mostrò poco interessato a prendere responsabilità dirette e si limitò ad
affermare che era inevitabile dare i nomi, "altrimenti chissà cosa
potrebbe succedere. Si, si, dateglieli!". Alle ore 09.45 Caruso ebbe un
incontro burrascoso in via Tasso con il colonnello Kappler che pretese la lista
dei 50 nomi; al colloquio era presente anche Pietro Koch,
capo della squadra speciale della polizia fascista di Roma, che stava già
preparando un suo elenco di persone da condannare alla rappresaglia. Caruso
apparve poco collaborativo; affermò di non avere molti prigionieri e diede solo
il nome di un medico condannato a morte per mercato nero; egli quindi si
allontanò seguito da Koch che invece garantì al colonnello che la lista con i
50 nomi sarebbe stata pronta entro le ore 14.00.
Il
colonnello Kappler si incontrò alle ore 12.00 con il generale Mälzer per
riferire; era stato convocato anche il maggiore Dobbrick, comandante della
compagnia del polizeiregiment Bozen colpita in via Rasella; il
generale, dopo essere stato informato dal colonnello Kappler sui progressi
nella compilazione della lista e sulle difficoltà dell'individuazione del
numero di italiani, ordinò al maggiore Dobbrick di eseguire personalmente con i
suoi uomini la rappresaglia. Il maggiore Dobbrick tuttavia rifiutò
espressamente di obbedire a questo ordine affermando che i suoi soldati non
erano in grado, per sentimenti religiosi, di eseguire le fucilazioni "nel
breve tempo a disposizione". Con grande disappunto il generale Mälzer
dovette ricercare altri esecutori e in un primo momento consultò il colonnello
Wolfgang Hauser, capo di stato maggiore del generale von Mackensen e richiese
un reparto di truppe per eseguire materialmente la rappresaglia. Il colonnello
Hauser tuttavia rifiutò a sua volta di farsi coinvolgere, affermando che il
compito spettava alla polizia tedesca che aveva subito l'attacco; il generale
Mälzer, sempre più in difficoltà, decise infine di assegnare direttamente al
colonnello Kappler e ai suoi uomini l'esecuzione delle fucilazioni; egli
stabilì inoltre che il capo della Gestapo a Roma avrebbe dovuto partecipare
personalmente per "dare l'esempio".
Esecuzione
della rappresaglia
Il
colonnello Kappler, dopo aver ricevuto gli ordini del generale Mälzer, ritornò
in via Tasso dove comunicò ai suoi uomini che "entro poche ore"
dovevano essere uccisi per rappresaglia 320 uomini; tutti i componenti del
reparto, compresi gli ufficiali, dovevano prendere parte alle esecuzioni come
"necessario atto simbolico". Il colonnello dovette affrontare
rapidamente importanti difficoltà tecniche legate alla modalità delle
fucilazioni ed al luogo di esecuzione; egli disponeva in tutto di 74 uomini,
tredici ufficiali, compreso egli stesso, un soldato semplice e 60
sottoufficiali; su proposta del capitano Köhler, si decise di effettuare
l'eccidio di massa in una serie di gallerie sotterranee abbandonate in via
Ardeatina. Dopo un sopralluogo del capitano con genieri dell'esercito la zona
venne ritenuta idonea e facilmente occultabile chiudendo con esplosivi le
entrate delle gallerie. Il colonnello Kappler stabilì che le uccisioni fossero
dirette dal capitano Carl Schütz, che il capitano Priebke controllasse la lista
per verificare l'avvenuto completamento delle uccisioni e che si impiegasse
"non più di un minuto per ogni uomo".
Ulteriori
difficoltà sorsero verso le ore 13.00 quando il colonnello Kappler apprese
della morte del trentatreesimo soldato tedesco in via Rasella; egli, deciso ad
eseguire con la massima precisione la rappresaglia, secondo le tassative
disposizioni delle autorità superiori, prese l'iniziativa immediata ed autonoma
di comprendere nella lista dei condannati a morte altri dieci uomini, presi tra
un gruppo di ebrei che erano stati arrestati nelle ultime ore dopo il
completamento dell'elenco iniziale. Intanto fin da mezzogiorno era iniziato il
concentramento dei todeskandidaten. I prigionieri rinchiusi in via
Tasso furono condotti fuori dalle celle e radunati con le mani legate dietro la
schiena; non venne comunicata alcuna informazione sul destino che attendeva le
vittime; il colonnello Kappler e il capitano Schütz ritennero che, per evitare
reazioni pericolose dei prigionieri o della popolazione, difficilmente
controllabili a causa del ridotto numero di militari tedeschi disponibili,
fosse preferibile mantenere l'incertezza e la segretezza. Poco prima delle ore
14.00 la colonna degli autoveicoli con i prigionieri si mise in movimento e da
via Tasso girò sulla destra su via Ardeatina; il luogo era distante circa un
chilometro. Le cave scelte per l'eccidio erano ubicate tra le catacombe di San
Callisto e santa Domitilla; attraverso tre accessi si entrava in un labirinto
di gallerie interconnesse che misuravano da trenta a novanta metri di
lunghezza, quattro metri di altezza e tre metri di larghezza. Prima dell'arrivo
degli automezzi con i condannati, il capitano Schütz si era recato sul luogo
con i suoi uomini, si trattava di personale poco esperto di armi e impiegato
soprattutto in compiti burocratici di polizia e repressione; egli illustrò in
modo energico la loro missione; il colonnello Kappler parlò agli ufficiali,
affermando che il loro compito era legittimo e che era indispensabile una loro
partecipazione diretta per rinsaldare il morale degli uomini.
Alle ore
15.30 arrivarono anche i prigionieri provenienti da Regina Coeli e dopo pochi
minuti ebbero inizio le fucilazioni. I prigionieri, suddivisi in gruppi di
cinque, vennero condotti nelle gallerie illuminate da soldati tedeschi muniti
di torce elettriche; all'entrata del luogo di esecuzione il capitano Priebke
richiedeva il nome al condannato e controllava la lista; quindi le vittime
venivano fatte inginocchiare e gli esecutori, all'ordine del capitano Schütz,
sparavano un colpo di pistola dall'alto in basso all'altezza del collo; in
questo modo si riteneva di ottenere una morte immediata. Un soldato accanto
all'esecutore illuminava la scena con un'altra torcia. Il colonnello Kappler
prese parte al secondo turno di eliminazione; il capitano Priebke invece sparò
con il terzo turno. In totale furono effettuati 67 turni di esecuzioni; mentre
all'inizio la procedura di annientamento delle vittime sembrò avviarsi con
precisione e disciplina, con il passare del tempo la situazione divenne più
confusa. Alcune vittime cercarono di opporre resistenza e dovettero essere
sottomesse con la forza; la massa crescente di cadaveri venne accatastata per
lasciare spazio a disposizione; alla fine per accelerare i tempi si decise di
far salire le vittime e gli esecutori sopra lo strato di cadaveri e si
formarono pile di corpi. Alcuni carnefici non eseguirono con precisione
l'esecuzione; fu necessario sparare ripetutamente sulla stessa vittima, molti
corpi furono devastati e mutilati dai colpi, alcune vittime non morirono
instantaneamente. Per sostenere il morale dei suoi uomini il colonnello Kappler
prese parte ad un secondo turno di esecuzioni; egli convinse a sparare anche il
tenente Wetjen che in un primo tempo si era rifiutato; tutti gli ufficiali, su
ordine del colonnello, effettuarono una seconda esecuzione, solo il
sottotenente Günther Amonn, completamente sconvolto, non riuscì a sparare e
venne messo da parte.
Mentre
procedeva l'eliminazione sistematica delle vittime comprese nella lista tedesca
del capitano Priebke, il colonnello Kappler era in ansiosa attesa dell'arrivo
dei cinquanta uomini che avrebbero dovuto essere forniti dal questore Caruso;
quest'ultimo aveva continuato a cercare di guadagnare tempo e non aveva ancora
completato la lista. Alle ore 16.30 il tenente Tunnat e il sottotenente Kofler
arrivarono a Regina Coeli e pretesero immediatamente i cinquanta prigionieri;
dato che la lista di Caruso non era ancora arrivata il tenente Tunnat radunò
sommariamente i prigionieri a caso; vennero prelevati alcuni che erano
effettivamente compresi nell'elenco del questore ma vennero anche condotti alla
morte dieci detenuti estranei in procinto di essere rilasciati. Il tenente
Tunnat condusse alle cave Ardeatine circa trenta uomini, egli dopo alcune ore
ritornò a Regina Coeli dove era arrivata la lista di Caruso; l'ufficiale
tedesco prese gli ultimi venti detenuti che arrivarono alle cave Ardeatine
quando ormai era sera; le venticinque esecuzioni finali terminarono alle ore
20.00. Il colonnello Kappler al termine dell'eccidio parlò ai suoi uomini
ammettendo che era "stato molto difficile" ma affermò che "la
rappresaglia era stata eseguita" in applicazione delle "leggi di
guerra".
Durante
l'esecuzione dell'annientamento dei todeskandidaten, il capitano
Priebke aveva accuratamente controllato la lista, procedendo alla verifica del
numero delle vittime; al termine dell'eccidio l'ufficiale rilevò che erano
presenti, a causa della confusione dell'azione finale di rastrellamento dei
condannati a morte, cinque uomini in più del numero previsto di 330. Il
colonnello Kappler, informato dal capitano Priebke, decise di procedere
all'eliminazione anche di questi ostaggi in più con la motivazione, riferita
dal maggiore SS Karl Hass durante il secondo processo del
dopoguerra, che fosse inevitabile ucciderli perché "avevano visto
tutto".
Al termine
della procedura di annientamento delle vittime, i soldati del genio tedeschi
minarono gli accessi alle gallerie e fecero esplodere le cariche sbarrando le
entrate; in questo modo il colonnello Kappler intendeva mantenere l'assoluta
segretezza sull'eccidio; le esplosioni finali furono udite da alcuni monaci
salesiani presenti nelle vicinanze che fungevano da guide alle catacombe, i
monaci avevano osservato durante l'intera giornata il frenetico movimento di
automezzi tedeschi nella zona. All'interno delle cave i cadaveri rimasero
ammassati in gruppi alti oltre un metro e mezzo.
Reazioni
all'eccidio
L'Alto
comando tedesco diramò alle ore 22.55 del 24 marzo un comunicato, trasmesso
dall'Agenzia Stefani, che, dopo aver descritto l'attentato di via Rasella,
"imboscata eseguita da comunisti-badogliani", proclamava la volontà
di "stroncare l'attività di questi banditi" e rivelava di aver
ordinato che "per ogni tedesco ammazzato dieci comunisti-badogliani
saranno fucilati" e concludeva con la frase inequivocabile "l'ordine
è già stato eseguito". I quotidiani romani riportarono il comunicato nella
loro edizione di mezzogiorno del 25 marzo.
Mussolini
discusse telefonicamente con il ministro Buffarini Guidi riguardo il tragico
eccidio; egli apparve soprattutto preoccupato per la possibile reazione della
popolazione di Roma; il Duce giustificò la rappresaglia: ai tedeschi "non
si può rimproverare nulla...la rappresaglia è legale, è sanzionata dai diritti
internazionali".
La convenzione dell'Aia del 1907
proibisce la rappresaglia, mentre la Convenzione di Ginevra del 1929,
relativa al Trattamento dei prigionieri di guerra, fa esplicito divieto di atti
di rappresaglia nei confronti dei prigionieri di guerra nell'Articolo
2. Dal punto di vista internazionale l'argomento rappresaglia era
contemplato nei codici di diritto bellico nazionali, in cui si faceva
riferimento ai criteri della proporzionalità rispetto all'entità dell'offesa
subita, della selezione degli ostaggi (non indiscriminata) e della salvaguardia
delle popolazioni civili. Alcuni di questi aspetti furono violati: nella
selezione degli ostaggi, poiché si procedette alla fucilazione anche di
personale sanitario, infermi e malati e inoltre poiché non risulta che sia
stata eseguita da parte tedesca alcuna seria indagine per appurare l'identità
dei responsabili dell'attacco, né si attesero le 24 ore di consuetudine affinché
gli stessi si consegnassero spontaneamente.
Dalle salme
identificate (322 su 335) si ricava che circa 39 fossero ufficiali,
sottufficiali e soldati appartenenti alle formazioni clandestine della
Resistenza militare, circa 52 erano gli aderenti alle formazioni del Partito
d'Azione e di Giustizia e Libertà, circa 68 a Bandiera Rossa, un'organizzazione
comunista trockijsta non legata al CLN, 19 erano fratelli
massoni appartenenti indistintamente sia dell’Obbedienza di Palazzo Giustiniani
sia a quella di Piazza del Gesù, e circa 75 erano di religione ebraica. Altri,
fino a raggiungere il numero previsto, furono detenuti comuni. Non
mancarono tuttavia tra gli uccisi i rastrellati a caso e gli arrestati a
seguito di delazioni dell'ultim'ora, come il giovane pugileLazzaro
Anticoli, detto "Bucefalo", arrestato in seguito alla
delazione di una correligionaria, Celeste Di
Porto, detta "Pantera Nera", finito alle Fosse Ardeatine
al posto del fratello della giovane.
Processi ai responsabili
dell'eccidio
Nel
dopoguerra, Herbert Kappler venne processato e
condannato all'ergastolo da un tribunale italiano e rinchiuso in carcere. La
condanna riguardò i 15 giustiziati non compresi nell'ordine di rappresaglia
datogli per vie gerarchiche. Colpito da un tumore inguaribile,
con l'aiuto della moglie riuscì ad evadere dall'ospedale
militare del Celio, il 15 agosto 1977, e a rifugiarsi in Germania, ove morì
pochi mesi dopo, il 9 febbraio 1978. Anche il principale collaboratore di
Kappler, l'ex-capitano delle SS Erich Priebke,
dopo una lunga latitanza in Argentina,
è stato arrestato ed estradato in Italia, ove, processato, è stato condannato
all'ergastolo per la strage delle Fosse Ardeatine. Morirà a Roma l'11 ottobre
2013. Anche Albert Kesselring, catturato a fine guerra, fu
processato e condannato a morte il 6 maggio 1946 da un Tribunale
Alleato per crimini di guerra e per l'eccidio delle Fosse Ardeatine, ma la
sentenza fu commutata nel carcere a vita. Nel 1952 fu scarcerato
per motivi di salute e fece ritorno in Germania, dove
si unì ai circoli neonazisti bavaresi. Morì nel 1960 per un attacco
cardiaco.
Il monumento ai martiri delle Fosse
Ardeatine
Subito dopo
la fine della guerra il comune di Roma bandì un concorso per la sistemazione
delle cave ardeatine e la costruzione di un monumento in
ricordo delle vittime dell'eccidio nel luogo stesso in cui avvenne: le cave
di pozzolana della via Ardeatina;
fu il primo concorso d'architettura nell'Italia liberata.
Dalle due
fasi del concorso uscirono vincitori ex aequo due gruppi: quello formato dagli
architetti Nello aprile, Cino Calcaprina, Aldo Cardelli, Mario
Fiorentino e dallo scultore Francesco Coccia e
quello formato dagli architetti Giuseppe Perugini e Mirko
Basaldella. Ai due gruppi fu assegnato l’incarico di un progetto
comune per la costruzione di un sacrario, la sistemazione
del piazzale e il consolidamento delle gallerie fatte esplodere dai tedeschi
dopo l’eccidio: quello che è stato chiamato monumento, o mausoleo,
ai martiri delle Fosse Ardeatine.
Il monumento
fu inaugurato il 24 marzo 1949.