venerdì 25 aprile 2014

25 Aprile

Circa un mese fa (il 24 Marzo per l'esattezza), mi sono imbattuto in questo.


Nonostante tanti anni sui banchi di scuola non sono mai riuscito ad andare oltre a quello che i programmi ministeriali volevano che io sapessi. E così capita di scoprire, ora, che le cose più importanti sono spesso quelle non studiate...oggi penso sia un buon giorno per fare un ripasso.


(qui riporto il testo tratto da Wikipedia).


Occupazione tedesca di Roma
10 settembre 1943 soldati italiani cercano di contrastare i tedeschi presso porta San Paolo. Dopo l'armistizio di Cassibile, la fuga del Re Vittorio Emanuele III, e l'ingresso nella capitale delle truppe tedesche dopo gli sfortunati combattimenti di Roma (8-10 settembre 1943), il 12 settembre i tedeschi assunsero il controllo effettivo della città, che era stata dichiarata città aperta dagli italiani il 14 agosto. Fin dai primi giorni dell'occupazione tedesca di Roma si costituirono nella capitale gruppi di resistenza, in particolar modo il Fronte Militare Clandestino ("Centro X") diretto dal colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo e nuclei comunisti, ai quali il generale Carboni aveva fatto distribuire armi fin dal 10 settembre.
Sottoposta pro forma alla sovranità della RSI, mantenendo lo status di "città aperta", Roma era in realtà governata di fatto solo dai comandi germanici, e lo divenne anche formalmente dopo lo sbarco di Anzio, il 22 gennaio 1944, quando l'intera provincia romana venne dichiarata "zona di operazioni". Il feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante tedesco del fronte meridionale, nominò capo della Gestapo di Roma, conferendogli direttamente il controllo dell'ordine pubblico in città, l'ufficiale delle SS Herbert Kappler, già resosi protagonista della razzia del ghetto ebraico e della successiva deportazione, il 16 ottobre 1943, di 1.023 ebrei romani verso i Campi di sterminio.
La campagna del terrore avviata da Kappler, con frequenti rastrellamenti ed arresti di antifascisti e semplici sospetti nelle varie carceri romane (fra cui il più tristemente famoso fu quello di via Tasso), sgominò nell'inverno 1943-44 quasi ogni gruppo della Resistenza romana, che si ritrovò a perdere prima gli elementi militari, quindi quelli trotzkisti di "Bandiera Rossa". Anche gli aderenti a "Giustizia e Libertà" e al Partito Socialista e i sindacalisti socialisti (come Bruno Buozzi) subirono forti decimazioni negli arresti compiuti dalle varie polizie tedesche, da quella italiana e dalle bande italiane sotto controllo tedesco (come la Banda Koch). Solo i GAP comunisti riuscivano a mantenere una buona efficienza operativa.
Il fatto che Roma venisse a trovarsi nelle immediate retrovie del fronte ingenerò la convinzione che la città fosse pienamente teatro di guerra. È in questo contesto che i quadri comunisti della Resistenza romana giunsero alla determinazione di reagire con le armi e di attaccare militarmente l'occupante con un'azione che avesse un forte valore simbolico: venne infatti scelto come data il 23 marzo, anniversario della fondazione dei fasci di combattimento.

L'attentato in via Rasella
Il 23 marzo 1944 ebbe luogo una azione di guerra partigiana contro l'11ª compagnia del III battaglione del Polizeiregiment "Bozen" in via Rasella, per iniziativa di partigiani dei Gruppi di Azione Patriottica delle brigate Garibaldi, che ufficialmente dipendevano dalla Giunta militare che era emanazione del Comitato di Liberazione Nazionale.
Tale reparto fu segnalato come bersaglio da Giorgio Amendola, poiché lo vedeva "passare ogni pomeriggio" "in pieno assetto di guerra", lasciando poi al comando partigiano "assoluta libertà d'iniziativa", non per eventuali responsabilità dei soldati che vi appartenevano. Il "Bozen" era costituito da soldati addestrati e venne descritto dallo stesso Amendola, come un "battaglione di gendarmeria" che transitava in Via Rasella "in pieno assetto da guerra".
L'operazione fu portata a termine da 12 partigiani. Fu utilizzata una bomba a miccia ad alto potenziale; collocata in un carrettino per la spazzatura urbana, confezionata con 18 kg di esplosivo misto a spezzoni di ferro e dopo l'esplosione furono lanciate alcune bombe a mano. Vennero uccisi 32 militari dell'11a Compagnia del III Battaglione del Polizeiregiment Bozen e un altro soldato morì il giorno successivo (altri nove sarebbero deceduti in seguito). L'esplosione uccise anche due civili italiani, Antonio Chiaretti, partigiano della formazione Bandiera Rossa, ed il tredicenne Piero Zuccheretti.

La rappresaglia
Processo decisionale tedesco
Il generale Kurt Mälzer comandante militare della città di Roma
La prima alta autorità ad arrivare in via Rasella dopo l'attentato fu il questore Pietro Caruso, subito dopo giunse il generale Kurt Mälzercomandante della piazza di Roma, che apparve sconvolto dall'evento, diede in escandescenze e proclamò subito la volontà di procedere alla "vendetta per i miei poveri kameraden". Il generale parlò di distruggere tutto il quartiere e di eliminare gli abitanti; il consigliere d'ambasciata Möllhausen e il colonnello Kappler arrivarono poco dopo e cercarono di calmare il generale Mälzer; il colonnello assicurò che avrebbe svolto un'inchiesta immediata per appurare modalità e responsabili dell'attacco. Il colonnello Eugen Dollmann, presente sul posto, ha affermato che subito si parlò di rappresaglia. Il generale Mälzer avvertì anche immediatamente il comando supremo tedesco in Italia ma non riuscì a parlare con il feldmaresciallo Kesselring che si era recato nella testa di ponte di Anzio; fu quindi il capo ufficio operazioni, colonnello Dietrich Beelitz, che telefonò al quartier generale di RastenburgAdolf Hitler venne avvertito nel primo pomeriggio, egli dispose una rappresaglia immediata "che avrebbe fatto tremare il mondo". Hitler avrebbe parlato di uccidere da trenta a cinquanta italiani per ogni soldato tedesco morto in via Rasella; peraltro non esistono documenti che provino l'esistenza di un ordine diretto di Hitler con la precisa determinazione dell'entità della rappresaglia.
In realtà, la decisione di compiere la rappresaglia fu presa durante una conversazione telefonica tra il generale Mälzer, il colonnello Kappler e il generale Eberhard von Mackensen (comandante dalla 14a Armata, che era il superiore diretto del generale Mälzer poiché responsabile della zona di guerra della testa di ponte di Anzio). Il generale von Mackensen che era a conoscenza delle pretese provenienti dal quartier generale di Rastenburg, ritenne, dopo essersi consultato con il colonnello Kappler, che fosse sufficiente fucilare dieci italiani per ogni tedesco morto in via Rasella; inoltre il generale stabilì che le vittime della rappresaglia avrebbero dovuto essere i cosiddetti Todeskandidaten; i prigionieri detenuti a Roma già condannati a morte o all'ergastolo e quelli colpevoli di atti che avrebbero probabilmente portato ad una condanna a morte. La decisione finale venne presa nella serata dopo il ritorno del feldmaresciallo Kesselring al suo posto di comando, egli apprese dal suo capo di stato maggiore, generale Siegfrid Westphal, i dettagli di via Rasella e le varie opzioni di rappresaglia discusse; quindi entrò in contatto telefonico con il generale Alfred Jodl a Rastenburg. Il feldmaresciallo affermò che riteneva appropriato "compiere un'azione intimidatoria" ma che considerava inattuabile una rappresaglia nelle proporzioni richieste da Hitler; egli propose di applicare la proposta del generale von Mackensen di uccidere dieci italiani per ogni caduto tedesco in via Rasella. Il generale Jodl non entrò in dettagli e in pratica lasciò la decisione finale sull'entità della rappresaglia alle autorità supreme tedesche in Italia, quindi il feldmaresciallo Kesselring concluse il complesso processo decisionale tedesco comunicando al generale von Mackensen di procedere alla rappresaglia dieci contro uno con "esecuzione immediata".
Il feldmaresciallo Kesselring in persona ha chiarito nella sua testimonianza al processo nel novembre 1946, che non fu attivata alcuna procedura precedente la rappresaglia per fare appello alla popolazione o agli attentatori, che non venne emesso alcun avvertimento pubblico riguardo la rappresaglia e la proporzione dieci contro uno e che non fu presentata alcuna richiesta ai partigiani di consegnarsi per evitare l'eccidio. Principale preoccupazione delle autorita tedesche a Roma fu la necessità di eseguire con la massima rapidità, entro 24 ore, e nella segretezza la rappresaglia, e la difficoltà di individuare nel poco tempo a disposizione l'elevato numero di Todeskandidaten richiesto dalla proporzione stabilita dal feldmaresciallo Kesselring e dal generale von Mackensen.

Scelta dei condannati a morte
Il generale Mälzer, subito dopo il primo colloquio con il generale von Mackensen e ancor prima della decisione definitiva del feldmaresciallo Kesselring, aveva incaricato il colonnello Herbert Kappler di individuare la lista dei prigionieri italiani da eliminare; essendo morti fino a quel momento ventotto soldati tedeschi a via Rasella, il capo della Gestapo a Roma iniziò a raccogliere i nomi di 280 Todeskandidaten. Il colonnello Kappler era consapevole della difficoltà di individuare in brevissimo tempo un numero così elevato di persone; nelle prigioni di via Tasso e di Regina Coeli egli disponeva di circa 290 prigionieri tra uomini e donne, ma una parte non rientravano tra i già condannati a morte o i colpevoli di reati passibili di condanna a morte; inoltre le donne vennero subito escluse dalla rappresaglia. Il colonnello Kappler decise di richiedere la collaborazione del questore Caruso che, dopo un incontro e alcune discussioni, promise di fornire una lista di cinquanta prigionieri da inserire nelle elenco dei Todeskandidaten.
Il colonnello Kappler prese in considerazione la possibilità di includere nell'elenco anche i 57 ebrei imprigionati in attesa di essere deportati; egli si consultò con il suo superiore diretto, il generale Wilhelm Harster, comandante in capo della Polizia tedesca in Italia con comando a Verona, che apparentemente sollecitò il suo subordinato a completare la lista a tutti i costi includendo anche "tutti gli ebrei di cui avete bisogno". Il colonnello Kappler ottenne anche l'approvazione al suo operato del giudice generale del Tribunale militare tedesco a Roma, Hans Keller, che ritenne sulla base della legge tedesca di autodifesa che la proporzione della rappresaglia fosse appropriata. Il colonnello quindi attivò i suoi ufficiali, illustrò le decisioni delle autorità superiori e diede inizio alla frenetica individuazione dei nomi da inserire nell'elenco; il lavoro degli ufficiali della sezione della Gestapo di Roma, diretto personalmente dal colonnello Kappler e dal suo aiutante principale, capitano Erich Priebke, durò tutta la notte.
Il lavoro degli uomini del colonnello Kappler divenne ancor più difficile dopo la notizia arrivata nel corso della notte che il numero dei soldati tedeschi morti in via Rasella era salito a trentadue; diveniva quindi indispensabile, per mantenere la proporzione stabilita per la rappresaglia, individuare 320 italiani da condannare a morte. Dalla ricerca iniziale emerse che i condannati a morte presenti nelle carceri della Gestapo erano solo tre, membri della Resistenza comunista e azionista, mentre gli uomini candidabili sulla base di accuse per reati passibili di condanna a morte risultarono sedici. Il colonnello Kappler incluse subito anche i 57 ebrei a cui aggiunse i nomi di altri otto antifascisti di religione ebraica; dopo essersi recato alla caserma del Viminale, l'ufficiale individuò altri dieci nomi, ritenuti dalle autorità di polizia italiane, "noti comunisti", compresi tra le persone rastrellate sommariamente in via Rasella dopo l'attentato. Nella notte la ricerca di altri Todenskandidaten continuò sempre più frenetica; il capitano Priebke ha descritto come con il passare delle ore si procedette ad un nuovo controllo degli elenchi dei detenuti ed all'inserimento nella lista di uomini arrestati in attesa di giudizio per "oltraggio alle truppe tedesche", per possesso di "armi da fuoco o esplosivi" o perché presunti capi di "movimenti clandestini". Il colonnello Kappler decise a questo punto di comprendere tra i condannati Aldo Finzi, ebreo con un importante passato di amicizia e collaborazione con Mussolini, e soprattutto il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, l'abile capo del Fronte militare clandestino dell'esercito, e altri 37 militari italiani, tra cui tre generali e tre ufficiali dei carabinieri compresi due capitani che avevano arrestato il Duce il 25 luglio 1943. Alle ore 03.00 del mattino del 24 marzo il colonnello Kappler, dopo aver aggiunto alla lista il sacerdote accusato di "attività comuniste" don Pietro Pappagallo, il partigiano Marcello Bucchi e il professore di liceo accusato di "antifascismo" Paolo Petrucci, ritenne, contando sui 50 nomi promessi dal questore Caruso, di aver raggiunto finalmente il numero di 320 condannati a morte previsti dalla rappresaglia.
Alle ore 08.00 del mattino tuttavia il questore Caruso non aveva ancora pronto il suo elenco; egli si era recato a conferire con il ministro degli interni del Regime di SalòGuido Buffarini Guidi, per richiedere istruzioni e la sua approvazione alla compilazione della lista; il ministro si mostrò poco interessato a prendere responsabilità dirette e si limitò ad affermare che era inevitabile dare i nomi, "altrimenti chissà cosa potrebbe succedere. Si, si, dateglieli!". Alle ore 09.45 Caruso ebbe un incontro burrascoso in via Tasso con il colonnello Kappler che pretese la lista dei 50 nomi; al colloquio era presente anche Pietro Koch, capo della squadra speciale della polizia fascista di Roma, che stava già preparando un suo elenco di persone da condannare alla rappresaglia. Caruso apparve poco collaborativo; affermò di non avere molti prigionieri e diede solo il nome di un medico condannato a morte per mercato nero; egli quindi si allontanò seguito da Koch che invece garantì al colonnello che la lista con i 50 nomi sarebbe stata pronta entro le ore 14.00.
Il colonnello Kappler si incontrò alle ore 12.00 con il generale Mälzer per riferire; era stato convocato anche il maggiore Dobbrick, comandante della compagnia del polizeiregiment Bozen colpita in via Rasella; il generale, dopo essere stato informato dal colonnello Kappler sui progressi nella compilazione della lista e sulle difficoltà dell'individuazione del numero di italiani, ordinò al maggiore Dobbrick di eseguire personalmente con i suoi uomini la rappresaglia. Il maggiore Dobbrick tuttavia rifiutò espressamente di obbedire a questo ordine affermando che i suoi soldati non erano in grado, per sentimenti religiosi, di eseguire le fucilazioni "nel breve tempo a disposizione". Con grande disappunto il generale Mälzer dovette ricercare altri esecutori e in un primo momento consultò il colonnello Wolfgang Hauser, capo di stato maggiore del generale von Mackensen e richiese un reparto di truppe per eseguire materialmente la rappresaglia. Il colonnello Hauser tuttavia rifiutò a sua volta di farsi coinvolgere, affermando che il compito spettava alla polizia tedesca che aveva subito l'attacco; il generale Mälzer, sempre più in difficoltà, decise infine di assegnare direttamente al colonnello Kappler e ai suoi uomini l'esecuzione delle fucilazioni; egli stabilì inoltre che il capo della Gestapo a Roma avrebbe dovuto partecipare personalmente per "dare l'esempio".

Esecuzione della rappresaglia
Il colonnello Kappler, dopo aver ricevuto gli ordini del generale Mälzer, ritornò in via Tasso dove comunicò ai suoi uomini che "entro poche ore" dovevano essere uccisi per rappresaglia 320 uomini; tutti i componenti del reparto, compresi gli ufficiali, dovevano prendere parte alle esecuzioni come "necessario atto simbolico". Il colonnello dovette affrontare rapidamente importanti difficoltà tecniche legate alla modalità delle fucilazioni ed al luogo di esecuzione; egli disponeva in tutto di 74 uomini, tredici ufficiali, compreso egli stesso, un soldato semplice e 60 sottoufficiali; su proposta del capitano Köhler, si decise di effettuare l'eccidio di massa in una serie di gallerie sotterranee abbandonate in via Ardeatina. Dopo un sopralluogo del capitano con genieri dell'esercito la zona venne ritenuta idonea e facilmente occultabile chiudendo con esplosivi le entrate delle gallerie. Il colonnello Kappler stabilì che le uccisioni fossero dirette dal capitano Carl Schütz, che il capitano Priebke controllasse la lista per verificare l'avvenuto completamento delle uccisioni e che si impiegasse "non più di un minuto per ogni uomo".
Ulteriori difficoltà sorsero verso le ore 13.00 quando il colonnello Kappler apprese della morte del trentatreesimo soldato tedesco in via Rasella; egli, deciso ad eseguire con la massima precisione la rappresaglia, secondo le tassative disposizioni delle autorità superiori, prese l'iniziativa immediata ed autonoma di comprendere nella lista dei condannati a morte altri dieci uomini, presi tra un gruppo di ebrei che erano stati arrestati nelle ultime ore dopo il completamento dell'elenco iniziale. Intanto fin da mezzogiorno era iniziato il concentramento dei todeskandidaten. I prigionieri rinchiusi in via Tasso furono condotti fuori dalle celle e radunati con le mani legate dietro la schiena; non venne comunicata alcuna informazione sul destino che attendeva le vittime; il colonnello Kappler e il capitano Schütz ritennero che, per evitare reazioni pericolose dei prigionieri o della popolazione, difficilmente controllabili a causa del ridotto numero di militari tedeschi disponibili, fosse preferibile mantenere l'incertezza e la segretezza. Poco prima delle ore 14.00 la colonna degli autoveicoli con i prigionieri si mise in movimento e da via Tasso girò sulla destra su via Ardeatina; il luogo era distante circa un chilometro. Le cave scelte per l'eccidio erano ubicate tra le catacombe di San Callisto e santa Domitilla; attraverso tre accessi si entrava in un labirinto di gallerie interconnesse che misuravano da trenta a novanta metri di lunghezza, quattro metri di altezza e tre metri di larghezza. Prima dell'arrivo degli automezzi con i condannati, il capitano Schütz si era recato sul luogo con i suoi uomini, si trattava di personale poco esperto di armi e impiegato soprattutto in compiti burocratici di polizia e repressione; egli illustrò in modo energico la loro missione; il colonnello Kappler parlò agli ufficiali, affermando che il loro compito era legittimo e che era indispensabile una loro partecipazione diretta per rinsaldare il morale degli uomini.
Alle ore 15.30 arrivarono anche i prigionieri provenienti da Regina Coeli e dopo pochi minuti ebbero inizio le fucilazioni. I prigionieri, suddivisi in gruppi di cinque, vennero condotti nelle gallerie illuminate da soldati tedeschi muniti di torce elettriche; all'entrata del luogo di esecuzione il capitano Priebke richiedeva il nome al condannato e controllava la lista; quindi le vittime venivano fatte inginocchiare e gli esecutori, all'ordine del capitano Schütz, sparavano un colpo di pistola dall'alto in basso all'altezza del collo; in questo modo si riteneva di ottenere una morte immediata. Un soldato accanto all'esecutore illuminava la scena con un'altra torcia. Il colonnello Kappler prese parte al secondo turno di eliminazione; il capitano Priebke invece sparò con il terzo turno. In totale furono effettuati 67 turni di esecuzioni; mentre all'inizio la procedura di annientamento delle vittime sembrò avviarsi con precisione e disciplina, con il passare del tempo la situazione divenne più confusa. Alcune vittime cercarono di opporre resistenza e dovettero essere sottomesse con la forza; la massa crescente di cadaveri venne accatastata per lasciare spazio a disposizione; alla fine per accelerare i tempi si decise di far salire le vittime e gli esecutori sopra lo strato di cadaveri e si formarono pile di corpi. Alcuni carnefici non eseguirono con precisione l'esecuzione; fu necessario sparare ripetutamente sulla stessa vittima, molti corpi furono devastati e mutilati dai colpi, alcune vittime non morirono instantaneamente. Per sostenere il morale dei suoi uomini il colonnello Kappler prese parte ad un secondo turno di esecuzioni; egli convinse a sparare anche il tenente Wetjen che in un primo tempo si era rifiutato; tutti gli ufficiali, su ordine del colonnello, effettuarono una seconda esecuzione, solo il sottotenente Günther Amonn, completamente sconvolto, non riuscì a sparare e venne messo da parte.
Mentre procedeva l'eliminazione sistematica delle vittime comprese nella lista tedesca del capitano Priebke, il colonnello Kappler era in ansiosa attesa dell'arrivo dei cinquanta uomini che avrebbero dovuto essere forniti dal questore Caruso; quest'ultimo aveva continuato a cercare di guadagnare tempo e non aveva ancora completato la lista. Alle ore 16.30 il tenente Tunnat e il sottotenente Kofler arrivarono a Regina Coeli e pretesero immediatamente i cinquanta prigionieri; dato che la lista di Caruso non era ancora arrivata il tenente Tunnat radunò sommariamente i prigionieri a caso; vennero prelevati alcuni che erano effettivamente compresi nell'elenco del questore ma vennero anche condotti alla morte dieci detenuti estranei in procinto di essere rilasciati. Il tenente Tunnat condusse alle cave Ardeatine circa trenta uomini, egli dopo alcune ore ritornò a Regina Coeli dove era arrivata la lista di Caruso; l'ufficiale tedesco prese gli ultimi venti detenuti che arrivarono alle cave Ardeatine quando ormai era sera; le venticinque esecuzioni finali terminarono alle ore 20.00. Il colonnello Kappler al termine dell'eccidio parlò ai suoi uomini ammettendo che era "stato molto difficile" ma affermò che "la rappresaglia era stata eseguita" in applicazione delle "leggi di guerra".
Durante l'esecuzione dell'annientamento dei todeskandidaten, il capitano Priebke aveva accuratamente controllato la lista, procedendo alla verifica del numero delle vittime; al termine dell'eccidio l'ufficiale rilevò che erano presenti, a causa della confusione dell'azione finale di rastrellamento dei condannati a morte, cinque uomini in più del numero previsto di 330. Il colonnello Kappler, informato dal capitano Priebke, decise di procedere all'eliminazione anche di questi ostaggi in più con la motivazione, riferita dal maggiore SS Karl Hass durante il secondo processo del dopoguerra, che fosse inevitabile ucciderli perché "avevano visto tutto".
Al termine della procedura di annientamento delle vittime, i soldati del genio tedeschi minarono gli accessi alle gallerie e fecero esplodere le cariche sbarrando le entrate; in questo modo il colonnello Kappler intendeva mantenere l'assoluta segretezza sull'eccidio; le esplosioni finali furono udite da alcuni monaci salesiani presenti nelle vicinanze che fungevano da guide alle catacombe, i monaci avevano osservato durante l'intera giornata il frenetico movimento di automezzi tedeschi nella zona. All'interno delle cave i cadaveri rimasero ammassati in gruppi alti oltre un metro e mezzo.

Reazioni all'eccidio
L'Alto comando tedesco diramò alle ore 22.55 del 24 marzo un comunicato, trasmesso dall'Agenzia Stefani, che, dopo aver descritto l'attentato di via Rasella, "imboscata eseguita da comunisti-badogliani", proclamava la volontà di "stroncare l'attività di questi banditi" e rivelava di aver ordinato che "per ogni tedesco ammazzato dieci comunisti-badogliani saranno fucilati" e concludeva con la frase inequivocabile "l'ordine è già stato eseguito". I quotidiani romani riportarono il comunicato nella loro edizione di mezzogiorno del 25 marzo.
Mussolini discusse telefonicamente con il ministro Buffarini Guidi riguardo il tragico eccidio; egli apparve soprattutto preoccupato per la possibile reazione della popolazione di Roma; il Duce giustificò la rappresaglia: ai tedeschi "non si può rimproverare nulla...la rappresaglia è legale, è sanzionata dai diritti internazionali".
La convenzione dell'Aia del 1907 proibisce la rappresaglia, mentre la Convenzione di Ginevra del 1929, relativa al Trattamento dei prigionieri di guerra, fa esplicito divieto di atti di rappresaglia nei confronti dei prigionieri di guerra nell'Articolo 2. Dal punto di vista internazionale l'argomento rappresaglia era contemplato nei codici di diritto bellico nazionali, in cui si faceva riferimento ai criteri della proporzionalità rispetto all'entità dell'offesa subita, della selezione degli ostaggi (non indiscriminata) e della salvaguardia delle popolazioni civili. Alcuni di questi aspetti furono violati: nella selezione degli ostaggi, poiché si procedette alla fucilazione anche di personale sanitario, infermi e malati e inoltre poiché non risulta che sia stata eseguita da parte tedesca alcuna seria indagine per appurare l'identità dei responsabili dell'attacco, né si attesero le 24 ore di consuetudine affinché gli stessi si consegnassero spontaneamente.
Dalle salme identificate (322 su 335) si ricava che circa 39 fossero ufficiali, sottufficiali e soldati appartenenti alle formazioni clandestine della Resistenza militare, circa 52 erano gli aderenti alle formazioni del Partito d'Azione e di Giustizia e Libertà, circa 68 a Bandiera Rossa, un'organizzazione comunista trockijsta non legata al CLN, 19 erano fratelli massoni appartenenti indistintamente sia dell’Obbedienza di Palazzo Giustiniani sia a quella di Piazza del Gesù, e circa 75 erano di religione ebraica. Altri, fino a raggiungere il numero previsto, furono detenuti comuni. Non mancarono tuttavia tra gli uccisi i rastrellati a caso e gli arrestati a seguito di delazioni dell'ultim'ora, come il giovane pugileLazzaro Anticoli, detto "Bucefalo", arrestato in seguito alla delazione di una correligionaria, Celeste Di Porto, detta "Pantera Nera", finito alle Fosse Ardeatine al posto del fratello della giovane.

Processi ai responsabili dell'eccidio
Nel dopoguerra, Herbert Kappler venne processato e condannato all'ergastolo da un tribunale italiano e rinchiuso in carcere. La condanna riguardò i 15 giustiziati non compresi nell'ordine di rappresaglia datogli per vie gerarchiche. Colpito da un tumore inguaribile, con l'aiuto della moglie riuscì ad evadere dall'ospedale militare del Celio, il 15 agosto 1977, e a rifugiarsi in Germania, ove morì pochi mesi dopo, il 9 febbraio 1978. Anche il principale collaboratore di Kappler, l'ex-capitano delle SS Erich Priebke, dopo una lunga latitanza in Argentina, è stato arrestato ed estradato in Italia, ove, processato, è stato condannato all'ergastolo per la strage delle Fosse Ardeatine. Morirà a Roma l'11 ottobre 2013. Anche Albert Kesselring, catturato a fine guerra, fu processato e condannato a morte il 6 maggio 1946 da un Tribunale Alleato per crimini di guerra e per l'eccidio delle Fosse Ardeatine, ma la sentenza fu commutata nel carcere a vita. Nel 1952 fu scarcerato per motivi di salute e fece ritorno in Germania, dove si unì ai circoli neonazisti bavaresi. Morì nel 1960 per un attacco cardiaco.

Il monumento ai martiri delle Fosse Ardeatine
Subito dopo la fine della guerra il comune di Roma bandì un concorso per la sistemazione delle cave ardeatine e la costruzione di un monumento in ricordo delle vittime dell'eccidio nel luogo stesso in cui avvenne: le cave di pozzolana della via Ardeatina; fu il primo concorso d'architettura nell'Italia liberata.
Dalle due fasi del concorso uscirono vincitori ex aequo due gruppi: quello formato dagli architetti Nello aprile, Cino CalcaprinaAldo CardelliMario Fiorentino e dallo scultore Francesco Coccia e quello formato dagli architetti Giuseppe Perugini e Mirko Basaldella. Ai due gruppi fu assegnato l’incarico di un progetto comune per la costruzione di un sacrario, la sistemazione del piazzale e il consolidamento delle gallerie fatte esplodere dai tedeschi dopo l’eccidio: quello che è stato chiamato monumento, o mausoleo, ai martiri delle Fosse Ardeatine.

Il monumento fu inaugurato il 24 marzo 1949.


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